A long and thoughtful response from Andrea (and my own comment below):
E' triste e vagamente irritante sentirsi ancora, e ancora, e ancora costretti a riflettere su temi come il razzismo e l'intolleranza. Perchè ne avvertiamo, all'un tempo, la stupidità e l'importanza.
Avvertiamo con imbarazzo la futilità di ripetere a noi stessi e ad altri riflessioni tanto ovvie quanto ahinoi sempre nuovamente attuali. Ci irrita dover formulare esplicitamente quelle considerazioni che dovrebbero essere patrimonio fondamentale di umanità e obiettività per chiunque, e invece non lo sono.
L'esercizio di accettare l'evidenza che viviamo in compagnia di estranei non ha nulla di moderno: i Minoici consideravano gli Achei dei bestioni ignoranti, i Latini che fondarono Roma si consideravano rivali degli Etruschi di Veio. Passiamo la vita ad elaborare concettualmente le appartenenze (nostre e degli altri) a questo o quel raggruppamento identitario, che sia definito su base linguistica, religiosa, geografica o ideologica. Alcune "appartenenze" sono addirittura a geometria variabile, e limitate a certi periodi della vita o momenti sociali: ci riconosciamo (e riconosciamo altri) alternativamente automobilisti e pedoni, consumatori, pensionati, studenti, romani, inquilini, viaggiatori, maschi, anziani, metropolitani, europei, romanisti, comunisti, bianchi, baby-boomers, intellettuali, figli, meridionali, contribuenti. E in ognuno di questi ruoli consideriamo come le nostra e le altrui caratterisctiche ci definiscano per appartenenza a un gruppo e diversità da altri.
La riflessione diventa delicata - e rivela tutte le sue più pericolose implicazioni- quando dalla considerazione di appartenenza si cerca di far conseguire un diritto: "in quanto" appartenente a questa o quella categoria di persone "ho diritto" a qualcosa di diverso e speciale rispetto agli altri.
Il collegamento fra appartenenza e diritti era più facile da elaborare e accettare come principio generale quando le comunità erano meno eterogenee ed evanescenti nel tempo e nello spazio: per secoli e secoli, per la gran parte degli esseri umani l'dentità definita dalla nascita definiva all'un tempo gran parte delle caratteristiche potenzialmente rilevanti per definire un'appartenenza in termini di razza, religione, residenza, lingua; e perfino, in larga misura, interessi economici, prospettive di sopravvivenza, legami di parentela. In tali condizioni, è fin troppo semplice per chiunque riconoscersi in quanto parte di una comunità e "diverso" da chiunque differisca anche solo per un aspetto fra questi. Colore, credo, dialetto e campanile definiscono all'unisono chi siamo e da chi ci distinguiamo, e lasciano ben pochi dubbi su quale sia "la nostra parte". Ma il progredire della storia ha significato per gran parte dell'umanità la progressiva e sistematica istruzione delle identità di appartenenza. Sotto molti punti di vista, essere "moderni" ha significato per gli uomini essere sempre meno spesso capaci di definirsi in quanto parte di una comunità definita e riconoscibile.
La definizione di noi stessi per appartenenza e differenza è, ci piaccia o meno, una componente profondamente radicata nella nostra psicologia. Siamo pur sempre una specie che si è evoluta vivendo in tribù. Per questo il razzismo emerge così facilmente nei nostri comportamenti, perfino dove sembrava essere estraneo alla cultura dominante da generazioni.
Per questo, anche, è così facile per chiunque, in ogni epoca e in ogni nazione, trovare gente entusiata e pronta ad aderire a qualsiasi iniziativa che richiami un qualche valore identitario, non importa quanto ridicolo e infondato. Riconoscersi parte di una tribù esercita su di noi un'attrazione irresistibile, come anche stabilire un criterio sbrigativo per identificare i nostri rivali.
Serve fare esempi?
Ma insomma, James.... cosa ne vuoi sapere TU, che sei INGLESE? solo perchè VIVI a Roma e PARLI italiano, credi di poter dire a NOI che siamo razzisti? Ma guarda un po', questi INTELLETTUALI, che pensano di capire IL POPOLO essendo nati in un'altra CLASSE. Che vuoi che m'importi se Balotelli è negro, quando la verità è che è BRESCIANO (e nato in SICILIA, poi...). Come TUTTI i GIOVANI d'oggi, non capisce neanche a chi deve dire grazie; che il suo stipendio lo paghiamo NOI CONTRIBUENTI.
Vedi com'è facile? ;-)
Un saluto a tutti,
Andrea
(pubblica quel che vuoi, se vuoi)
My reply: It is certainly irritating to have to repeat the same things over and over again but as long as human beings carry on doing the same dumb (and sometimes intelligent) things, we are all going to have to continue coming to terms with them… and ourselves.
That's why, Andrea, you quote ancient Greek examples, why their dramas and political analyses are as valid today as they were for Pericles or Aristophanes and long before.
And I am certainly not accusing Italians, all Italians, of being racist. Italy so far has dealt with immigration much better than Britain, Germany, France and the US. The Balotelli case is important precisely because it should help Italy avoid the mess that other countries have been through… or at least create new and different messes. Balotelli has multiple identities like the rest of us - he is claimed as an Italian and Bresciano, and maybe as a Palermitano and also by Ghanaians who would like to see him playing for the Black Stars. But he's also a son as I pointed out and is soon to be a father. I was just looking at one aspect.
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